Stefano Zamagni per www.piuvoce.net
Il tema degli stili di vita è oggi particolarmente attuale per almeno tre ordini di ragioni.
La prima ragione è riconducibile a un fenomeno noto, ossia il paradosso della felicità.
Si tratta di un fenomeno secondo il quale all’aumentare del reddito pro capite non corrisponde un aumento della felicità e, anzi, oltre una certa soglia, si registra addirittura una diminuzione. E così il detto “La ricchezza non dà la felicità” riprende una sorprendente veridicità, mentre storicamente si pensava fosse solo un luogo comune, una sorta di detto popolare, nato per giustificare l’incapacità del sistema economico di generare progresso e dare benessere ai cittadini.
Ma, ormai più di 30 anni fa, l’economista Richard Easterlin studiò questa curva, giungendo a scoprire che quel detto conteneva una verità fondamentale. Le teorie che incoraggiavano a sacrificarsi oggi per un futuro roseo, acquistano ora un senso relativo perché abbiamo sperimentato che il nostro stile di vita attuale, fatto di ricchezza e benessere, non fa necessariamente stare meglio. Davanti a ciò la gente si domanda che senso abbiano il lavoro e il sacrificio se i soldi non rendono felici.
La seconda ragione è da ricondurre al fatto che negli ultimi due secoli lo sviluppo economico ha provocato di fatto la distruzione dell’ambiente. Abbiamo finora vissuto uno stile di vita basato sul consumo irrazionale della terra e dell’acqua, che si è rivelato insostenibile nel tempo. Il vincolo ambientale sta inducendo un cambiamento nel nostro modo di consumare, nell’oggetto del nostro consumo e anche nel livello del consumo.
Il terzo motivo per cui si è tornato a parlare di stili di vita è la presa d’atto dell’esistenza di una categoria di beni, i beni relazionali, che sono soggetti a una forma di scarsità di tipo non materiale, bensì sociale. Gli essere umani hanno necessità di consumare questo tipo di beni ma il meccanismo del mercato non è in grado di produrli. La gente ne ha bisogno, ma non ci sono soggetti di offerta. Si tratta, come abbiamo detto, di una scarsità che non è materiale, perché i beni relazionali sono legati alle relazioni interpersonali e la loro esistenza presuppone un rapporto tra le persone.
Lo stile di vita della società industriale ci ha letteralmente inondati di beni materiali di tutti i tipi, ma ha impedito la generazione di beni relazionali. La società pre industriale, al contrario, non era capace di produrre beni materiali sufficienti, ma era in grado di produrre beni relazionali.
La sfida oggi consiste nel modificare il nostro stile di vita senza dover tornare alla società pre industriale. Noi, infatti, abbiamo bisogno dei beni materiali e sappiamo che sono una cosa buona; per questo motivo non accettiamo la tesi della “decrescita” in cui si teorizza un ritorno alla fase pre industriale. L’obiettivo, infatti, non è tornare indietro ma andare avanti in un modo diverso, riproporzionando, aumentando i beni relazionali e diminuendo quelli materiali. In Usa circa vent’anni è stato fatto un tentativo in questo senso con la creazione del “mercato dell’amicizia”, un tentativo naturalmente destinato a fallire.
Questo tema è per la prima volta anche affrontato in un’enciclica. Nelle precedenti, infatti, si parla solo di beni materiali o al massimo di welfare, oggi invece si torna a parlare di fraternità e della società fraterna come la sola via in grado di generare beni relazionali. Questo approccio differisce profondamente da quanto affermato nella teoria della decrescita, che abbiamo menzionato prima; essa, infatti, ha fondamenti esclusivamente materialistici e non dà alcuna indicazione sulla creazione dei beni relazionali, perché considera solo l’aspetto materiale della realtà.
In questo momento penso che la Dottrina sociale della Chiesa sia l’unica via d’uscita per risolvere il problema degli stili di vita, perché parla di fraternità e impegna i credenti a tradurre tale principio; è una sfida grossa ma possibile perché la gente è stufa. In concreto, ad esempio, cambiare stile di vita può voler dire che il bello, in senso culturale e artistico, deve diventare oggetto di consumo popolare. Nella società industriale era riservato ai ricchi, oggi invece bisogna fare in modo che il bello sia fruibile da tutti e questo è il terreno in cui la visione cristiana può dare il maggior contributo, come d’altra parte ha fatto finora. Basta vedere le cattedrali: opere magnifiche e aperte a tutti.
E’ la dimostrazione che non è vero, anzi prova il contrario, che il secolarismo segnerà la fine del cristianesimo.
Stefano Zamagni per www.piuvoce.net