Scrivo il dolore che mi ha fatto ieri leggere sui giornali di quella collega napoletana, giornalista de Il Mattino, Mary Liguori, che, inviata dal suo giornale dopo un omicidio a San Giorgio a Cremano, ha scoperto che una delle vittime era il padre, persona perbene, uccisa perché testimone.
Siamo abituati a tutto e tutto ci passa addosso facile. Siamo convinti che la lotta alle mafie è vinta e viviamo il riposo dei giusti. Ma a Napoli si muore così: nell’indifferenza di chi ha visto (zero testimoni alle 18.30 in una zona affollata) e di chi non ha visto (il resto del Paese).
Scrivo il dolore ma anche una domanda: che sta succedendo a Napoli? Tra spazzatura incontrollabile, morti come al Far West e quell’altra assurda storia: la vicenda della ragazzina rimasta chiusa tra le porte del bus, mentre scendeva, e trascinata per centinaia di metri. Morta pure lei, vittima di un’altra disattenzione.
Cos’è Napoli oggi? Lo dico con un’espressione forte, che però certo non farà rumore perché Napoli oggi attutisce e digerisce tutto, come una di quelle discariche moderne che solo lì non si riesce a costruire: è una città inerte, sfibrata, quasi uccisa.
Non morta, perchè rumore, sporcizia e ingiustizia sono frutto di una qual certa vitalità, ma è incapace di reagire.
Non vediamo, non sentiamo una coscienza critica, un movimento di popolo.
Palermo e Reggio Calabria, le altre città martiri di questo Paese, hanno espresso nei momenti delicati della loro storia un guizzo, una rinascita, una cosa nuova: la Primavera palermitana nata intonro al Centro Arrupe dei Gesuiti, il movimento No Pizzo, le manifestazioni giovanili e universitarie nella Reggio degli anni ’90, l’albero della pace ancora a Palermo.
Mai Napoli si è distinta per una cosa del genere.
Napoli è avviluppata in un racconto alla Arbore, ormai stucchevole. Quella Napoli lì, che con una risata (non con una indignazione di massa) è capace di seppellire l’ultimo morto, mi ricorda quel compagno di scuola al quale bene si attagliava il famoso detto che il riso abbonda sulla bocca etc etc.
Riporto l’articolo che Mary Liguori scrive oggi su Il Mattino. E’ un articolo molto bello, se vale un giudizio di questo tipo, in queste situazioni.
Rosario Carello
Io, cronista e vittima oggi scrivo per papà
di Mary Liguori (da Il Mattino)
Scrivo questo articolo perché me lo ha chiesto mia madre che in questo momento, forse più di me, crede nel potere dei mezzi di comunicazione. Mia madre spera che un appello possa smuovere le coscienze di testimoni che hanno visto il marito morire da innocente.
«Chi sa parli, collabori con i carabinieri, ci aiuti a fare giustizia», dice mia madre. Faccio mio quest’appello e non da giornalista, ma da figlia. La figlia di un uomo che ha cominciato a fare il meccanico ad appena otto anni ed è morto mentre lavorava.
Quando i killer sono entrati nell’officina, per scovare l’uomo che cercavano e trucidarlo, mio padre stava cambiando l’olio ad un motorino. È morto lavorando, mio padre. Ed è morto per errore, perché si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era un uomo onesto, che amava vivere in disparte, stare lontano dai riflettori.
Oggi si ritrova sui giornali, vittima inconsapevole di una violenza inaudita e noi non possiamo che sperare che un giorno si trovino i suoi assassini, che la giustizia possa prevalere sull’omertà. Quante volte, da giornalista, ho raccolto appelli del genere: familiari di gente ammazzata che si aggrappano alla speranza della giustizia, pur sapendo che nulla farà tornare in vita il proprio caro.
Oggi tocca a me e alla mia famiglia fare i conti con questo sentimento. Posso solo dire che sto vivendo un incubo, il peggiore degli incubi. Per anni i cronisti come me coltivano il sogno della firma in prima pagina, oggi mi è toccato finirci nel modo più orrendo, quello che mai avrei voluto e nemmeno lontanamente immaginato.
Sento intorno a me tanta solidarietà: i colleghi giornalisti, i fotografi, i rappresentanti delle forze dell’ordine. Il Prefetto di Napoli mi ha inviato un telegramma, che mi ha molto colpito. Ripenso a quello che mi diceva sempre mio padre: «Non importa il lavoro che fai né quanto ti pagano, l’importante è che ti piaccia davvero». So di non essere sola, ma so anche di essere molto più debole senza di lui.
Spesso, dinanzi alla prospettiva di andare via da qui, mi sono risposta: che andassero via gli altri, quelli violenti, quelli che hanno reso questa città invivibile! Perché dovrei essere io ad abbandonare il campo? Io faccio la giornalista anche per cercare di cambiare le cose, per migliorarle. Oggi ci credo un po’ meno, mi chiedo se vale ancora la pena lottare.
Ma un secondo dopo mi rispondo che sì, vale la pena. Devo farlo per mio padre, per mio marito che il suo papà l’ha perso appena un anno fa, per i miei fratelli. E per mia madre che, tramite me, vi dice: «Chi ha visto, parli».