La domenica di padre Ronchi

Da Avvenire, il commento di padre Ermes Ronchi al Vangelo di domenica 16 ottobre

 

Da Dio hai ricevuto, a Dio restituisci

 

XXIX Domenica Tempo ordinario – Anno A

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità.(…). Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Alla domanda cattiva e astuta di chi vuole metterlo o contro Roma o contro la sua gente, Gesù risponde giocando al rialzo, come al suo solito, e con due cambi di prospettiva che allargano gli orizzonti della domanda. Con il primo cambio di prospettiva muta il verbo pagare (è lecito pagare le tasse?) in restituire: quello che è di Cesare rendetelo a Cesare. Con il secondo cambio introduce l’orizzonte di Dio. Innanzitutto parla di un dare e avere: voi usate questa moneta, usate cioè dello stato romano che vi garantisce strade, giustizia, sicurezza, mercati. Avete ricevuto e ora restituite.

Pagate tutti le tasse per un servizio che tocca tutti. Come non applicare questa chiarezza semplice di Gesù ai nostri giorni, in cui la crisi economica porta con sé un dibattito su manovre, tasse, evasione fiscale; applicarla ai farisei di oggi che giustificano in mille modi, quando addirittura non se ne vantino, l’evasione delle imposte. «Restituisci, perché sei in debito». Io sono in debito verso genitori, amici, insegnanti, medici, verso la storia di questo paese, verso chi mi ha insegnato ad amare e a credere, mi ha trasmesso affetto e valori, verso i poeti e gli scienziati, i cercatori di Dio, verso milioni di lavoratori sconosciuti, verso l’intera mia società. Un tessuto di debiti è la mia vita, io ho avuto infinitamente di più di ciò che ho dato. Restituire a Cesare di cui mi fido poco? A Cesare che ruba? Sì, ma al modo di Gesù, lui che non guardava in faccia a nessuno, come riconoscono i farisei: allora, se Cesare sbaglia, il mio tributo sarà quello di correggerlo; e se ruba gli ricorderò la voce della coscienza e il dovere della giustizia.

Il secondo cambio di prospettiva inserisce la dimensione spirituale. Da Dio hai ricevuto, a Dio restituisci. Da Lui viene il respiro, il volere e l’operare, il gioire e l’amare, i talenti, il seme di eternità deposto in te, suo è il giardino del mondo. Davanti a Lui, come davanti all’uomo, non siamo dei pretendenti, ma dei debitori grati. Se avessimo tra le mani quella moneta romana capiremmo qualcosa d’altro. L’iscrizione recitava: divo Caesari, al divino Cesare appartiene. Gesù scinde di netto l’unità di queste due parole: Cesare non è Dio. Altro è Cesare, altro è Dio. Di Dio è l’uomo, quell’uomo che Lui ha fatto di poco inferiore a un dio. A Cesare le cose, a Dio la persona. A me dice: tu non inscrivere nel cuore altre appartenenze che non siano a Dio. Resta libero e ribelle ad ogni tentazione di venderti o di lasciarti possedere. Ripeti al potere: io non ti appartengo. Ad ogni potere umano Gesù dice: non appropriarti dell’uomo, non ti appartiene. L’uomo è cosa di Dio. È creatura che ha Dio nel sangue.

 

(Letture: Isaìa 45, 1.4-6; Salmo 95; 1 Tessalonicesi 1, 1-5b; Matteo 22, 15-21)

Come ci cambiano i nuovi media?

Questo articolo è uscito sul numero di agosto di  “Dialoghi”, la rivista di approfondimento dell’Azione Cattolica.

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Il telefonino stretto in mano. Quasi un’appendice, una protesi. Un nuovo modo di stare in mezzo agli altri. Oppure l’agenda, che non è più solo di carta ma sempre più sul tablet o nel cellulare, ma in realtà nel cloud, nella nuvola, e quindi chissà dove. O ancora: lo smartphone, che con mille invenzioni, ci rende impermeabili agli altri, perché autosufficienti, anche nella noia dei tempi morti, come in fila alla Posta o al supermercato. C’è un aspetto che consideriamo ancora poco: il peso che hanno sulle nostre abitudini, e in definitiva sulle nostre giornate, le nuove invenzioni della tecnica. Perché se è vero che la comparsa della lavatrice regalò il tempo di leggere alle nostre nonne, come racconta in un suggestivo quadretto familiare Mario Calabresi[1], cosa sta accadendo ora a noi, testimoni di un’epoca dai cambiamenti fulminei e in corso, e quindi dagli esiti non ancora evidenti? Cosa accade ai nostri figli, nelle classi dov’è sempre più complesso catturare la loro attenzione? Cosa accade a noi, praticamente travolti dalle informazioni ma non per questo più informati?

 

  1. LA MORTE DEL LINGUAGGIO ISTITUZIONALE

Dietro i maglioncini blu con cui i politici si fanno inquadrare nei fine settimana e dietro la romantica mano nella mano che unisce tenere coppie presidenziali USA, pure pubblicamente dedite alla fedifraga attività, si nasconde una morte: quella del linguaggio dell’accademia, dell’istituzione. Lo schema prevedeva un uomo (o una donna) solo al comando su una cattedra, che trasmetteva il sapere. Un trasferimento che aveva la gravità del parto. Era il Maestro Perboni di De Amicis, era l’Anziano del villaggio, era l’Onorevole nell’Italia del 1950. Era il Docente universitario, era l’Esperto in tv, il Medico del paese. Era un’autorità che sapeva, che non doveva essere contraddetta e che si esprimeva con parole che avevano il sapore del definitivo. Certamente un mondo che non c’è più, sepolto, come l’idea stessa di una parola Ultima e Definitiva. È la prova che almeno nella comunicazione il relativismo ha vinto, cresciuto sotto la chioccia dalla luce azzurrina che è la tv, la tv dei dibattiti su tutto, dei talk-show, degli opinionisti a buon mercato, la tv del secondo me. Questa insidiosissima espressione è una sorta di autocertificazione morale, in nome  della quale, senza studio, senza aver approfondito una materia ne si può parlare liberamente. L’altro giorno in parrocchia una coppia si diceva contraria alla posizione della Chiesa in tema di contraccezione. Avevano letto l’Humanae Vitae? No, argomentavano attraverso il secondo me. Così è facile parlare di tutto: storia, scienza, natura, fede. Da Mussolini statista alle adozioni per gli omosessuali, il secondo me ci rassicura e ci autorizza ad intervenire sempre, anche quando non conosciamo i fatti. Il pudore di mantenere il silenzio? Di sospendere un giudizio in attesa di approfondire? Macchè! Approfondiscono per caso le attrici in tv quando balbettano di politica, come fossero editorialisti del Corriere della Sera? No. E i politici quando cantano o ballano, sono per caso un’armonia o una barzelletta? Se i primi quiz televisivi avevano lo scopo di suscitare la curiosità intellettuale degli italiani, generando modelli virtuosi, com’erano i campioni che Mike Bongiorno celebrava, i modelli di oggi, cioè gli opinionisti a basso costo, suscitano un ben altro e più degradante effetto. Se tutto questo è vero, cioè se la cattedra di un sapere appare superflua, a favore del cicaleccio di tante voci, allora è facile leggere il disagio con cui il mondo laico osserva senza più capire taluni aspetti del mondo cattolico. Il sacramento della confessione, l’omelia durante la messa, l’infallibilità del Papa sono temi che riportano ad un centro forte, lontano dall’equivalenza delle proposte. I miei peccati non sono rimessi dal secondo me, ma da Dio per il tramite del sacerdote. L’omelia non è certo tenuta dal primo che passa. E l’infallibilità papale su alcuni temi, ripropone non solo simbolicamente l’idea della cattedra. Aggiungo che è proprio l’idea dell’equivalenza delle proposte ad aver generato l’emergenza educativa: se infatti aiutare a crescere è insegnare a scegliere, non è offrendo il supermercato dei valori uguali, che si agevola il percorso che porta i più giovani a diventare adulti.

La morte del linguaggio accademico-istituzionale è plasticamente resa poi dalla caduta dei simboli dell’istituzione. Il maglioncino dei politici al posto del vestito, il loro privato raccontato da se stessi, sono segnali di resa: io sono come te, caro cittadino, noi siamo uguali, quindi avremo anche gli stessi difetti. Non pensarmi come il tuo regolatore, non sono la tua coscienza, sono il tuo specchio.

Sembra uguaglianza, ma è mimetismo, ed è in nome di questo che i politici dicono e si contraddicono con grande serenità, fino al motto, terribile, che il ministro Gianfranco Rotondi usa sottoscrivere, attribuendolo al suo collega della Prima Repubblica, Fiorentino Sullo, il quale davanti all’accusa di cambiare troppo facilmente idea rispondeva: «In politica, le cose che si dicono, valgono solo nel momento in cui si dicono».

Un altro segno del bradisismo in atto, è visibile nei convegni, sostituiti dai festival, dagli incontri, dai dibattiti, dove al trasferimento dei saperi è subentrata l’esperienza della relazione personale. Meno sapere, più laboratorio. Meno teoria, meno studiare, meno ascoltare e più vedere, più fare, più toccare con mano. E così la differenza che c’era tra l’oratorio e il lavoro, tra il mondo dei ragazzi e quello degli adulti, si è curiosamente assottigliata.

 

 

  1. QUANTI MINUTI DURA LA TUA ATTENZIONE?

Anche il telecomando ha inciso profondamente, in particolare sulla percezione del ritmo. Quanto dura la nostra attenzione? Per quanti minuti riusciamo a leggere un testo senza distrarci? E per quanto riusciamo a seguire senza difficoltà un ragionamento, una lezione, un discorso? Come al primo abbassamento di tensione ritmica di un programma, l’istinto ci spinge a cambiare canale, così vorremmo fare ogni volta che un interlocutore è noioso e una pagina complessa. È come se avessimo perso la capacità di mettere a fuoco, cosa che le moderne macchine fotografiche fanno in automatico. La nostra mente ha solo un fuoco, chi c’è c’è e chi no è fuori. Vorremmo che tutto avesse la tensione narrativa di una perfetta commedia hollywoodiana, e non è un caso che la politica e la pubblicità abbiano abbandonato un linguaggio analitico a favore di uno narrativo. Perché costringere un pubblico riottoso al ragionamento, quando una storia comunica più facilmente? Obama, prima ancora che una proposta politica, è stato il racconto di un formidabile sogno americano, prima da realizzare e poi realizzato. E la cosiddetta discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994, attraverso lo storico video inviato alle redazioni, cos’era se non un piccolo film? La paura («Di vivere in un paese illiberale»), l’amore («L’Italia è il Paese che amo»), la famiglia («Ho imparato da mio padre il mio mestiere di imprenditore», che però era un bancario). Parlando all’Assemblea del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Papa Benedetto XVI ha affermato: «I nuovi linguaggi che si sviluppano nella comunicazione digitale determinano, tra l’altro, una capacità più intuitiva ed emotiva che analitica, orientano verso una diversa organizzazione logica del pensiero e del rapporto con la realtà, privilegiano spesso l’immagine e i collegamenti ipertestuali. (…) I rischi che si corrono sono sotto gli occhi di tutti: la perdita dell’interiorità, la superficialità nel vivere le relazioni, la fuga nell’emotività, il prevalere dell’opinione più convincente rispetto al desiderio di verità. E tuttavia essi sono la conseguenza di un’incapacità di vivere con pienezza e in maniera autentica il senso delle innovazioni. Ecco perché la riflessione sui linguaggi sviluppati dalle nuove tecnologie è urgente[2]». Il Papa individua con molta precisione questi tre rischi: perdita dell’interiorità, superficialità nel vivere le relazioni, fuga nell’emotività. E il Sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana e Direttore dell’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali, mons. Domenico Pompili, nel corso del seminario Parola & Parole, organizzato dall’Azione Cattolica[3], ha notato: «Oggi occorre riconciliare, per dirla con due grandi categorie, quello che è il logos e quello che è il pathos. Significa tentare un abbraccio tra queste due dimensioni, che la cultura nella quale siamo immersi tende invece a separare nettamente, optando o per l’una o per l’altra. E dunque producendo inevitabilmente delle situazioni disumanizzanti perché sembrerebbe che il logos raffreddi il pathos e che per comprendere si esiga il distacco dal sentire. Ma quando questa separatezza si compie la comunicazione diventa se-duzione o in-duzione e perde il suo valore educativo, che consiste non nel riempire ma nel liberare, nel portare oltre. E la stessa intelligenza rischia, deprivata di questa forza, di ridursi a intellettualismo, algido». La Chiesa, lo notava nella stessa sede del seminario, il sociologo Michele Sorice, è sempre riuscita a tenere unito il pathos con il logos. Cosa sono le parabole di Gesù o le meravigliose vite dei santi, poste in modo esemplare all’attenzione dei fedeli, se non il frutto di questo saper tenere insieme?

 

CON L’AIUTO DELLE MACCHINE

Ma non ci sono solo rischi, anzi. I cambiamenti sono tanti, positivi e affascinanti.  Durante il seminario dell’Azione Cattolica, mons. Claudio Maria Celli, Presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni sociali, ha citato il caso dell’Uruguay: «In questo momento gli studenti di una scuola primaria, quattrocentomila ragazzini, hanno in mano un piccolo computer di duecento dollari. Voi capite che cosa vuol dire che un bambino dalla prima elementare cominci a riflettere, a pensare, a comportarsi (…) con un computer in mano? Per un bambino di questa età parlare di connessione è di una evidenza solare. Fa sorridere, me lo permettete, ma un bambino che è abituato a vivere in connessione  con gli altri fin dalla prima elementare, capisce subito che cosa vuol dire essere in comunione, in connessione».

Insomma, vuoi vedere che osservando la tecnica capiremo meglio l’essenza dell’essere umano?

 

Rosario Carello

 

 


[1] Mario Calabresi, Cosa tiene accese le stelle, Mondadori

[2] Discorso del Santo Padre Benedetto XVI ai partecipanti all’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, 28 febbraio 2011

[3] Organizzato il 3 maggio 2011 dalla Presidenza Nazionale. Nel programma, dopo i saluti dell’Assistente generale mons. Domenico Sigalini e l’introduzione del Presidente Franco Miano, gli interventi di mons. Claudio Maria Celli

Presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni sociali e mons. Domenico Pompili, Sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana e Direttore dell’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali. A seguire un focus intitolato I volti della comunicazione, con Paolo Bustaffa, Direttore dell’Agenzia Sir, Vania De Luca, Giornalista di Rai News 24 e Presidente Ucsi-Lazio, Michele Sorice, Sociologo e Direttore Cmcs della Luiss, Marco Tarquinio,  Direttore di Avvenire. Hanno moderato le due parti, Fabio Zavattaro, TG1, e Rosario Carello, A Sua Immagine, Rai 1.