Ricordo benissimo il 1986 quando Whitney Houston andò a Sanremo.
Quel genio di Pippo Baudo l’aveva capita e portò sul palco dell’Ariston un’artista stranota a noi ragazzi (avevo 13 anni e la ascoltavo in radio) ma per gli imbalsamati, oggi come ieri, dell’Ariston, quel pubblico di ghiaccio che di vivo ha solo i soldi che tira fuori per pagarsi la poltrona del teatro, per loro Whitney Houston era un’emerita sconosciuta.
E accadde una cosa che ricordo benissimo. Cantò. Whitney Houston cantò come sapeva fare. E gli imbalsati si sciolsero. «Chi è questa?». La voce calda allontanò le diffidenze e il pubblico dell’Ariston impazzì.
Un’interpretazione perfetta. Accompagnata da una bellezza incantevole.
Quel genio di Baudo capì tutto (anzi, secondo me lo sapeva da sempre) e chiese alla Houston di fare il bis, anzi lo chiese al pubblico, nel senso se era d’accordo sul bis e venne giù il teatro.
Dopo quel Sanremo il successo fu mondiale: film, dischi, applausi. E fu l’inizio della fine.
Credo fosse parente di Dionne Warwick, e peccato che di quest’altra grande cantante americana (formidabile ogni cosa che canta, ho per le mani una sua esecuzione dei pezzi di Burt Bacharach), peccato che della Warwick non abbia preso la (sostanziale) moderazione.
Whitney Houston non muore come Amy Winehouse o come Michael Jackson, cioè vittima del suo talento ingestibile o del successo.
Muore come una donna sfortunata: un uomo sbagliato al fianco, un uomo violento, l’incapacità di trovare fuori dalla droga e dall’alcol una risposta ai vuoti che inevitabilmente la vita porta con sè.
Morire per non saper superare le turbolenze, i vuoti d’aria.
Whitney Houston è un’artista di un talento straordinario che muore non come un’artista disperata ma come una donna normale. Normalmente infelice. Come tante, purtroppo, anche senza il suo talento, i suoi successi e i suoi soldi.
Uno spreco assoluto di felicità. Uno spreco assoluto di doni ricevuti.
Di seguito canta Whitney, con una canzone che avrebbe dovuto (potuto) segnare la sua ripresa.